Il CIPM ha cofinanziato parte del seguente progetto di ricerca
Titolo del progetto:
Utilizzo dei sensori di movimento come strumento per la definizione della risposta terapeutica e come nuova misura di outcome nella Poliradicolonevrite Infiammatoria Cronica Demielinizzante (CIDP)
Investigators:
Prof. Massimiliano Filosto, Prof. Andrea Pilotto, Prof. Alessandro Padovani
Dipartimento di Scienze Cliniche e Sperimentali, Università degli Studi di Brescia
Dr. Loris Poli
ASST Spedali Civili di Brescia
Dr.ssa Barbara Risi, Dr.ssa Filomena Caria
Centro Clinico-NeMO, Brescia
Descrizione della ricerca
Premessa
La poliradicolonevrite intiammatoria cronica demielinizzante (CIDP) è una malattia cronica ed invalidante che colpisce il sistema nervoso periferico (1,2).
La CIDP è considerata una malattia rara con una prevalenza stimata che va da 0,8 a 8,9 casi su 100.000 soggetti a seconda delle aree geografiche prese in considerazione (3,4). In Italia la prevalenza stimata è di circa 3-4 casi su 10000 soggetti mentre l’incidenza annuale è di circa 0.4 casi su 100000 (5).
La CIDP può insorgere a qualsiasi età anche se nella maggior parte delle casistiche l’età media di esordio è intorno ai 40-50 anni (1-4). Vi è un generale consenso nella comunità scientifica sul fatto che la CIDP sia una patologia immuno-mediata che colpisce principalmente la mielina a livello del sistema nervoso periferico. Tuttavia, il bersaglio specifico della risposta immunitaria aberrante è raramente identificato (6,7).
A livello clinico, la CIDP presenta un fenotipo tipico e diverse varianti, queste ultime in passato classificate come forme atipiche e recentemente distinte come entità cliniche caratterizzate (8).
La forma tipica di CIDP coinvolge i nervi sensitivi e motori in maniera simmetrica e lunghezza dipendente, determinando difficoltà nel movimento in oltre il 94% dei pazienti e alterazioni della sensibilità superficiale profonda in oltre l’80% mentre una compromissione autonomica è rara. Circa 1’80% dei pazienti con CIDP mostra un quadro clinico tipico, il restante 20% presenta delle varianti cliniche.
Tra queste, la più comune è la sindrome di Lewis-Sumner (o “multifocal CIDP”), una mononeuropatia multifocale multipla che colpisce prevalentemente gli arti superiori in maniera asimmetrica (2). Esiste, inoltre, una forma di CIDP simmetrica ma prevalentemente distale chiamata “DADS” (Distal Acquired Demyelinating Symmetrical Neuropathy”) e sono più raramente descritte forme di CIDP puramente motoria, puramente sensitiva o focale a seconda dei tronchi nervosi prevalentemente colpiti (7,8).
Nel complesso, la CIDP è una patologia invalidante: oltre il 50% dei pazienti nel corso della malattia giunge all’incapacità di camminare senza supporto e circa il 10% diventa gravemente disabile o muore a causa della malattia (3). Tuttavia, nel corso degli anni si è assistito al progressivo sviluppo di terapie specifiche.
Secondo le recenti lince guida pubblicate dell’European Joint Task nel 2021, il trattamento di prima linea della CIDP prevede tre tipi di terapie: corticosteroidi, plasmaferesi e immunoglobuline per via endovenosa (Ig IV) (8,10-12).
Poiché, da un lato, la plasmaferesi presenta limitazioni in termini di disponibilità di Centri in grado di eseguire la procedura e di problematiche logistiche per il paziente, dall’altro i corticosteroidi nel lungo termine causano effetti collaterali che non permettono un trattamento prolungato nel tempo, nella pratica clinica si tende a preferire in prima battuta la somministrazione di Ig IV nella fase di induzione di trattamento (8,13). I primi trials clinici sull’utilizzo di Ig IV come trattamento per la CIDP risalgono agli anni ’90 anche se, all’epoca, per l’assenza di definiti criteri diagnostici e l’eterogeneità della popolazione studiata, i risultati di quegli studi sono stati contrastanti (14,15).
Con il definirsi delle linee guida diagnostiche dell’European Joint Task, nel 2008 è stato pubblicato il trial randomizzato ICE su una popolazione di 117 pazienti che ha mostrato il netto beneficio nei pazienti trattati con Ig IV rispetto ai soggetti trattati con placebo (16). Tali risultati sono stati poi confermati dai successivi trials in open PRISMA e PRISM e da studi osservazionali multicentrici (17,18).
Ad oggi, la somministrazione di Ig IV è approvata nella fase di induzione di remissione di malattia alla posologia di 2g/kg (8). Prima di determinare l’assenza di risposta terapeutica al trattamento con Ig IV, l’European Task Force suggerisce di ripetere da 2 a 5 cicli alla posologia di 1 g/kg ogni 3 settimane o, in alternativa, un secondo ciclo alla posologia di 2 g/kg (8). L’efficacia della terapia con Ig IV ha portato al suo utilizzo nel lungo termine in molti pazienti. Il trattamento ha una latenza media di azione di circa 5-15 giorni, raggiungendo il picco di concentrazione massima in circa 21 giorni (19). L’emivita plasmatica è di circa 26 giorni, garantendo solitamente un’efficacia di trattamento di almeno 40-60 giorni, dopo i quali si assiste ad un brusco calo delle Ig circolanti (19).
Negli ultimi anni, il trattamento con formulazioni sottocute di Immunoglobuline (Ig SC) ha suscitato particolare interesse per la possibilità di assicurare ai pazienti una “home-therapy” di mantenimento e migliorare la loro qualità di vita (8,22). La posologia totale annuale è solitamente sovrapponibile a quella delle Ig IV con somministrazioni che, nella maggior parte dei casi, sono a cadenza bisettimanale o settimanale (8).
Nella pratica clinica questa strategia terapeutica ha comportato una maggiore stabilizzazione clinica poiché i livelli serici di immunoglobuline si mantengono costanti nel tempo (22).
Non vi sono evidenze in termini di maggiore efficacia terapeutica delle Ig SC rispetto alle Ig IV e lo switch dalla formulazione IV a quella SC è spesso dettata dalla frequenza dei cicli IV (ad esempio necessità di cicli molto ravvicinati per controllare la sintomatologia) e dalla preferenza del paziente (8,23).
Sull’utilizzo di Ig SC nella fase di induzione i dati sono scarsi. Un singolo studio randomizzato su 20 pazienti ha confrontato Ig SC e Ig IV evidenziando una risposta clinica sovrapponibile, tuttavia più rapida nei pazienti trattati con Ig IV (24).
Le esperienze maturate nel tempo con il trattamento con Ig IV hanno evidenziato la necessità sempre più urgente di “personalizzare” il regime terapeutico (dosaggio, durata, frequenza) e di individuare più precise misure di outcome e di efficacia terapeutica in ragione dell’evidente variabilità di risposta in termini sia quantitativi che qualitativi nei diversi pazienti trattati.
Ad esempio, un recente studio controllato randomizzato ha mostrato un range temporale variabile tra i 2 e i 12 mesi perché si manifesti un peggioramento dopo sospensione della terapia cronica con Ig IV con un valore mediano di 4,5 mesi (13,20).
Tali risultati confermano come sia necessario modulare in maniera personalizzata la “distanza temporale” tra i cicli terapeutici poiché l’adozione di uno schema standardizzato può condurre al fenomeno dell’*over-treatment”, ovvero alla somministrazione di cicli ravvicinati di Ig IV a dosaggio pieno, tipicamente ogni 2-3 mesi, anche in soggetti che non ne hanno stretta necessità.
Considerando che il costo medio della terapia con Ig IV si attesta intorno ai 6000 Euro per ciclo, il fenomeno dell'”over-treatment” rappresenta un problema non solo clinico ma anche farmaco-economico poiché espone i pazienti a un maggior rischio di effetti collaterali e comporta un incremento dei costi per il Sistema Sanitario Nazionale (21).
Allo stesso modo, anche per il trattamento con Ig SC si pone la necessità di stabilire una posologia personalizzata che permetta di ottenere una risposta clinica sostenuta evitando fenomeni di “over-treatment”.
La recente penuria di Immunoglobulina Umana Normale sul mercato ha reso ancora più urgente l’ottimizzazione e la personalizzazione dei trattamenti terapeutici. La personalizzazione del trattamento richiede l’utilizzo di robuste misure di outcome che permettano una valutazione oggettiva e ben definita della risposta al trattamento.
La valutazione della risposta alla terapia non è solo fondamentale per calibrare il miglior approccio terapeutico per i l paziente ma rappresenta anche uno dei criteri di supporto per confermare la diagnosi di CIDP (8).
Ad oggi, la risposta clinica alla terapia nei pazienti affetti da CIDP viene definita dall’evidenza di un miglioramento in almeno una delle scale cliniche di disabilità (Inflammatory Neuropathy Cause and Treatment – INCAT– Disability Score o Inflammatory Rasch-built Overall Disability Scale – I-RODS) e in una delle scale di impairment motorio (MRC sum score, valutazione della grip strength) validate per la CIDP (8).
Tali scale cliniche hanno mostrato diverse limitazioni (26,27). Innanzitutto, si tratta di scale “generali” che non permettono di correlare la modificazione di un dato metrico con una chiara modificazione clinica dell’attività di malattia (26,27). Questo gap interpretativo può essere determinato da incoerenze nella definizione di “risposta al trattamento” e potenzialmente riflettersi in un significativo effetto placebo durante i trials clinici (28).
Inoltre, non è ancora stabilito in letteratura un cut-off che in maniera univoca definisca la risposta al trattamento come chiaramente risulta dalla variabilità dei disegni di studio di recenti trials clinici pubblicati (8).
Per valutare le fluttuazioni legate al trattamento (TRFs), un recente studio osservazionale (GRIPPER study) ha analizzato le TRFs durante il trattamento con Ig IV applicando la misurazione quotidiana a domicilio della “grip strength” per individuare i pazienti “frequent fluctuaters” e proponendo un cut-off >10% di variazione nella “grip strength” per definire le fluttuazioni clinicamente significative (25). Tuttavia, questo studio si è focalizzato solo sugli arti superiori per cui i risultati sono difficilmente applicabili alla maggior parte die pazienti che solitamente presentano un prevalente coinvolgimento degli arti inferiori o una presentazione multifocale (25).
Alla luce di queste considerazioni, vi è accordo a livello internazionale sulla necessità di misure di outcome più affidabili e più sensibili che permettano di cogliere in maniera univoca variazioni cliniche e di adeguare la terapia in base alla reale risposta terapeutica, soprattutto in funzione dei numerosi trials clinici in partenza nei prossimi anni (27).
Le misure cliniche di outcome sono tanto più efficaci quanto più possono essere correlate con marcatori bio-umorali di attività di malattia.
Tra quelli recentemente proposti vi sono citochine implicate nei processi infiammatori (tra cui TNF-alfa, IL-1, IL-6, IL10, IL12, IL15 ed IL 17) e markers di danno neuronale (catene leggere dei neurofilamenti sierici, NfL.) (29-30).
Tuttavia, il ruolo di tali biomarkes nel definire l’andamento clinico e nelle decisioni terapeutiche è ancora ampiamente dibattuto (17).
Razionale della proposta
Alla luce di quanto descritto in premessa, l’utilizzo di misure di outcome non adeguate è da considerarsi la prima causa di fallimento di trials clinici. La scarsa sensibilità delle misure utilizzate richiede il reclutamento di un maggiore “sample size” con il rischio che gli obiettivi primari non vengano raggiunti.
Considerando la rarità della CIDP, tali limitazioni rischiano di compromettere lo sviluppo futuro di nuove terapie, rendendo necessario implementare nuove misure di outcome più efficaci e sensibili nel descrivere i cambiamenti clinici nei pazienti.
Sul versante della pratica clinica, vi è oggi la stringente necessità di migliorare la gestione terapeutica dei pazienti con CIDP sia in termini di scelta terapeutica (Ig IV, Ig Sc, altri farmaci immunomodulanti sia in termini di frequenza dei trattamenti e posologia al fine di evitare fenomeni di “over- o under-treatment”.
Il nostro studio propone l’utilizzo di tecnologie digitali tipo sensori di movimento in pazienti affetti da CIDP quale metodo di misurazione dell’efficacia terapeutica e quale misura di outcome clinico.
Tali presidi tecnologici permettono di intercettare anche minimi cambiamenti nella motilità fine e grossolana e potenzialmente rappresentano una innovativa metodica per misurare l’efficacia terapeutica e ottimizzare la gestione clinico-terapeutica dei pazienti secondo esigenze individuali.
Al fine di meglio definire l’utilità delle misure cliniche effettuate mediante sensori di movimento, proponiamo, inoltre, la valutazione seriata di biomarkers potenzialmente associabili all’attività di malattia (citochine infiammatorie e neurofilamenti) allo scopo di effettuare specifiche correlazioni clinico-biologiche (i biomarcatori verranno correlati con le misurazioni effettuate tramite sensori, al fine di valutarne il grado di concordanza e contribuire alla validazione della nuova misura di outcome).
Obiettivi
Obiettivi primari:
- Validazione dell’utilizzo di sensori di movimento quale misura di outcome clinico e della risposta terapeutica in pazienti affetti da CIDP
Obiettivi secondari:
- Comparare l’andamento clinico dei pazienti in terapia con Immunoglobuline IV e SC e altre tipologie di terapie immunomodulanti
- Correlare la valutazione clinica della risposta alla terapia con la valutazione mediante sensori di movimento
Metodi
In questo studio, saranno reclutati 20 pazienti affetti da CIDP seguiti presso U.O. Neurologia degli Spedali Civili di Brescia e presso il Centro Clinico NeMO-Brescia per le Malattie Neuromuscolari.
Criteri di inclusione:
- Diagnosi di CIDP tipica o variante secondo i criteri European Joint Task del 2021;
- Età superiore o uguale a 18 anni;
- Capacità di deambulare (INCAT leg < o uguale a 2)
- Capacità di comprendere le modalità dello studio e fornire consenso informato alle procedure.
Criteri di esclusione:
- Diagnosi di CIDP possibile in assenza di criteri di supporto secondo le linee guida European Joint Task del 2021;
- Diagnosi di CISP o riscontro di anticorpi nodali o paranodali;
- Altra causa di polineuropatia con impatto clinico medio-severo sul paziente;
- Evidenza di mielopatia o demielinizzazione centrale;
- Età inferiore a 18 anni;
- Severa compromissione della marcia con necessità di utilizzo di singolo o doppio appoggio
- Incapacità di comprendere le modalità dello studio e fornire consenso informato alle procedure.
Risultati attesi
Sulla base delle premesse, ci attendiamo di dimostrare come l’utilizzo dei sensori di movimento permetta di evidenziare modificazioni cliniche con maggiore sensibilità e specificità rispetto alle usuali scale cliniche. Ci attendiamo, inoltre, di dimostrare come la precisa identificazione di tali modificazioni permetta di cogliere in maniera più puntuale la risposta individuale alla terapia e fornisca informazioni al clinico per prescrivere una terapia personalizzata più efficace in termini di dosaggio, tempistica, durata e intervalli di somministrazione. In ultimo, ci attendiamo di dimostrare la presenza o meno di una correlazione tra le scale cliniche standard e i sensori di movimento.
Se i risultati dovessero confermare le nostre aspettative, saremmo in grado di dimostrare come i sensori di movimento siano una misura di outcome più sensibile delle scale valutative utilizzate fino ad oggi. Ciò ci permetterà di modificare il regime di somministrazione in atto calibrandolo sulle esigenze di ogni singolo paziente e di proporre alla comunità scientifica internazionale i sensori di movimento come misura di outcome primario per futuri trials clinici aumentandone la possibilità di successo.
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